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COLLANA ORCO ANTHROPOLOGICA
2002

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Luigi Bertotti.

LA PIANTICELLA DI CANAPA

Signori antichi e usurpazioni nel Canavese del medioevo.

Capitoli:

1- I signori rurali del Canavese.

2- Il borgo di Cuorgnè ( La sua nascita sotto le signorie rurali )

3- I Conti del Canavese (Le loro origini e genealogia, le date della loro comparsa sul territorio secondo fonti sicure.)

4- Belmonte (Unica signoria alto canavesana della quale, in quanto ecclesiastica, ci sono pervenuti i documenti autentici. Venne a lungo angariata ed infine occupata dai Valperga).

Con l’appoggio delle nozioni storiografiche sviluppate a Torino da Giovanni Tabacco e dalla sua scuola, e delle recenti indagini sulla vicenda arduinica e sui conti del Canavese, Bertotti studia l’evoluzione dell’assetto del territorio e della gestione del potere in Canavese dal latifondo tardo-romano, attraverso la curtis alto-medievale, sino alle signorie locali e all’invasione dei discendenti dei conti di Pombia.

L’attenzione è focalizzata in particolare sulla signoria dei Valperga e si dimostra come essi, producendo falsi documenti per confortare i loro diritti, abbiano alterato la storia più antica del Canavese.

 

PREFAZIONE

Il Canavese come laboratorio per gli storici

prof. Giuseppe Sergi
Università di Torino

Alcune zone si prestano particolarmente a essere "laboratori di verifica" per il lavoro degli storici, e poche lo sono come il Canavese. Questo libro ha il gran merito di mostrarci in trasparenza perché lo è, rinunciando agli elementi più esteriori di fascino del medioevo "immaginario". Con una bella semplicità, che tuttavia non elude i problemi, ci introduce a un quadro ricco non di integrazioni fantastiche (come troppo volte è avvenuto in passato) ma di meccanismi concreti e ben documentati.

Immagino non sia facile rivolgersi a un pubblico locale sottraendogli alcune certezze a cui è abituato: identificazioni toponomastiche forzate, la trasmissione tutta dinastica dei poteri sin dall’alto medioevo, genealogie traballanti ma date per acquisite da generazioni, i potenti locali sempre come "feudatari" dei re e, in questa zona, sempre come discendenti di re Arduino. Molte di queste deformazioni hanno origini antiche, sono state costruite per legittimare il proprio potere da uomini degli anni di transizione fra il medioevo e l'antico regime: non ci si deve dunque stupire se prima l'erudizione nel suo insieme e, in un secondo tempo, almeno la storiografia non professionale, abbiano continuato a divulgare errori (fondati su documentazione falsa o su spiegazioni troppo semplici) non inventati, ma ereditati da quello stesso passato che intendevano ricostruire.

Il libro di Bertotti ha il gran merito di tener conto delle convinzioni tradizionali e, al tempo stesso, di smontarle dall'interno, mostrandone con calma e con garbo l'inconsistenza e sostituendole con spiegazioni fondate che, giustamente, non trattano il Canavese come un territorio a parte rispetto agli sviluppi generali del medioevo italiano ed europeo.

Nel costruire il suo discorso l'Autore si è reso conto dei rischi comportati dalle conoscenze scontate. Non si può fare nessuna storia, e neppure storia dei Valperga, con pregiudizi profonda-mente errati: come la persuasione che la «curtis» sia un’azienda chiusa corrispondente all'economia di baratto, come l'idea di una sicura corrispondenza fra ricchezza latifondistica e potere locale, come l'illusione che si possa e si debba, per tutti i potenti, trovare un antenato ufficialmente incaricato dal re dei suoi poteri.

Se si hanno pregiudizi del genere, le novità delle pagine seguenti non si colgono. Per evitare questo rischio Bertotti ha fatto una scelta quasi 'didattica', introducendo anche gli strumenti per capire. Così alcune preziose parti sono dedicate a descrivere che cos'è un "dominatus loci", attraverso quali processi (dal basso più che per deleghe dall'alto) si formi la signoria rurale, come funzioni una "curtis" dagli anni della sua gestione bipartita (diretta e indiretta) sino alla fine del suo ciclo vitale (a cavallo fra i secoli XI e XII), quando dell'antica «curtis» rimane solo il ricordo del centro (il "caput curtis" e varie località mantengono di curtense soltanto il nome, non più il funzionamento. È in questa fase che la nostra toponomastica si riempie di villaggi che hanno la radice curtis nel loro nome.

Questa chiarezza concettuale, a cui Bertotti ha informato la propria opera, è utile anche per accompagnare il lettore nei meandri dei poteri del Canavese. Che, come si è detto, è un «laboratorio» non solo perché assiste alla concorrenza fra signori di castello, poteri temporali dei vescovi e stentata ma avvertibile affermazione del comune di Ivrea, ma perché ci mostra anche una complessa tipologia di quei signori. Ce ne sono di almeno tre tipi: 1) signori che discendono da quella che la storiografia professionale definisce aristocrazia d'ufficio", formata da conti, marchesi e custodi di castello che erano veri ufficiali regi, incaricati formalmente dei loro poteri; 2) signori che sono immediatamente tali, «dòmini» che hanno allestito la loro potenza senza deleghe, coniugando la loro ricchezza in terre con l'intraprendenza militare e con una rete di rapporti di consenso; 3) signori che hanno costruito spontaneamente i loro poteri ma fingono di avere un'origine pubblica.

Un signore di castello che, nei secoli centrali del medioevo, voglia consolidare la sua autorità, fa frequentemente un interessante gioco propagandistico: da un lato prova a insistere sull'origine pubblica del suo castello (come se un antenato fosse stato un "custos castri" ufficiale) perché così nessuno può contestare la legittimità del potere che da quel castello promana; dall'altro insiste anche sul carattere patrimoniale e di famiglia del castello medesimo, perché a nessun potere superiore possa venire in mente di sottrarglielo per affidarlo a un nuovo incaricato.

È un'operazione di immagine contraddittoria e difficile, che tuttavia di solito riesce.

L'Autore, nel passare in rassegna i diversi potenti locali, ha sempre ben presente questa classificazione, e ci aiuta a capire meglio le dinamiche della zona. Con un'attrezzatura concettuale certamente nuova per pagine inizialmente suggerite dall'affetto per i luoghi, il libro sceglie una forma espositiva che è nel solco di una nobile tradizione storiografica: la cosiddetta "antiquaria", consistente in una presentazione ordinata e cronologica dei documenti di cui disponiamo, che fa parlare i documenti direttamente tutte le volte in cui ciò si rivela possibile. È stato indotto a ciò dalla constatazione che molti erano i documenti falsi o falsificati che giustificavano la "vulgata" delle conoscenze in fatto di storia canavesana.

Quindi i falsi li elimina (esplicitando la sua operazione), le falsificazioni le usa: ma non ingenuamente, bensì proprio interrogandosi e fornendo a noi ipotesi sui motivi che avevano guidato la mano degli autori delle interpolazioni. Valga per tutti l'esempio dell'interpolazione e dell' "abbellimento" della Cronaca di Fruttuaria, che risulta proprio contenere "tutti gli elementi della ricostruzione del passato". In particolare, inventando l'esistenza di Reghino, figlio di Arduino d'Ivrea altrove mai documentato, l'interpolatore aiutava i Valperga nel loro sforzo di risultare discendenti del famoso re. Curiosa vicenda, quella del mito di Arduino. Così demonizzato, nel primo secolo successivo alla sua morte, da far spegnere nella regione persino la tradizione del titolo di "marchese" (che invece prospera più a sud, nel Torinese), perché legato alla memoria dell' "episcopicida" e, in ogni caso, a quella di un personaggio i cui seguaci erano colpiti da confische. E poi progressivamente recuperato come il più nazionale dei miti locali, ripensato come nobilitante, tanto da determinare la corsa ai collegamenti inventati, con interventi anche araldici (operati dai Valperga, appunto), sugli stessi simboli del potere dell'antico marchese e re.

Bertotti corregge e informa.

Corregge, ancora, quando attribuisce a un periodo ben tardo, il secolo XIV, e ai rapporti con i Savoia la massiccia feudalizzazione dei poteri canavesani. Prima è giusto parlare di signorie e non di poteri feudali. Corregge quando ci spiega che le "contee" di questa zona non hanno nulla in comune con gli antichi distretti carolingi, ma sono "signorie controllate da famiglie che usano il titolo comitale solo per tradizione familiare e lo applicano ai territori concretamente condizionati dai loro castelli. E mantiene spesso questo spirito da correzione anche nelle piccole cose, anche quando, in modo piano e accattivante, descrive la struttura materiale di un borgo.

Informa quando ci illustra i processi di ramificazione dell'aristocrazia originariamente d'ufficio. La ramificazione stessa è "sviluppo signorile , tant’è vero che i Valperga, che già sono un ramo, si ramificano ulteriormente; le famiglie signorili sottolinea-no la propria identità "agganciando" - è un termine tecnico della medievistica professionale - i propri titoli di "comites" o di "do-mini ai castelli in cui quotidianamente risied6no e da cui esercitano un potere locale, qualitativamente ormai lontanissimo da quello dei capostipiti.

Informa quando ci presenta la realtà monastica di Belmonte come luogo di contatto del Canavese con il ceto dominante urbano di Asti, ma ancora più quando va a cercare l'intreccio fra realtà e fantasia nelle tradizioni di fondazione degli enti religiosi. I fondatori sono, è vero, spesso consapevoli di costruirsi centri di consenso: ma questa consapevolezza è ancora più accentuata negli eruditi della prima età moderna, che sottolineano il prestigio di tutte quelle iniziative, e vi intravedono un mezzo per esaltare la religiosità e le propensioni al buon governo delle famiglie di cui ricostruiscono il passato.

Ma poiché l'Autore non vuole farsi troppo distrarre da considerazioni di tipo metodologico, ci accompagna anche fuori da quei periodi sia quello delle iniziative aristocratiche sia quello delle ricostruzioni encomiastiche - e ci mostra lo scolorirsi della funzione politica forte delle fondazioni religiose: Belmonte, soprattutto, a partire dal secolo XVII, comincia a occupare un posto diverso, come meta della religiosità popolare. E anche la cultura del popolo, non solo la sua religiosità, si alimenta di miti del passato variamente costruiti: è giusto, come qui si fa, trattare i miti con il rispetto dovuto a vere "esigenze" della memoria collettiva. Ma è anche giusto, con quel rispetto, correggerli o addirittura cancellarli.

 

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